La mini serie Netflix Unbelievable si basa su fatti realmente accaduti e narrati in un articolo investigativoUn Unbelievable Story of Rape – vincitore del pulitzer nel 2015. Susannah Grant ne ha adattato la storia in qualità di regista e showrunner, coadiuvata dalle penne di Ayelet Waldman e Michael Chabon. Merritt Wever e Toni Collette interpretano le investigatrici che si occuparono del caso per il quale ottenne infine giustizia Marie Adler, qui interpretata da Kaitlyn Dever (di recente protagonista di Booksmart, ma che i migliori tra voi ricorderanno come Loretta in Justified). La storia prende le mosse dalla vicenda della giovane Marie che dopo aver denunciato uno stupro viene indotta a ritrattare, salvo poi essere denunciata per aver riportato il falso.

Unbelievable è una delle serie migliori dell’anno, è senz’altro il miglior crime dell’anno e fa invecchiare di colpo e male una gran quantità di prodotti analoghi.

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Unbelievable non inventa nulla di nuovo, del genere crime non ricodifica né sovverte gli stilemi che anzi segue diligentemente, eppure puntata dopo puntata si ha la sensazione di assistere al dispiegarsi di una storia simile a mille altre nella forma, ma nuova nella sostanza , per arrivare a fine visione accompagnati dall’idea di aver assistito a qualcosa di mai mostrato prima, e questo accade perché la serie prende un genere, lo sottrae all’onnipresente io narrante maschile che permea tutti i prodotti simili, per dare voce a chi finora non ne aveva mai avuto una: le donne, qui finalmente rappresentate, comprese e abbracciate da una scrittura e da una regia che empatizza con loro ponendole al centro della narrazione come soggetti autonomi.

Le vittime di Unbelievable non sono corpi a beneficio di una messinscena pornografica della violenza, né veicoli buoni per ennesime riproposizioni sul tema della fascinazione del male; sono esseri umani la cui centralità nella storia le rende sempre protagoniste della vicenda e mai mezzi strumentali a innescare un arco narrativo che sposti l’attenzione su un mondo, e modo, maschile di intendere la violenza e cercare di porvi riparo. Le vittime di Unbelievable non sono madri, figlie, sorelle, mogli, sono innanzitutto persone il cui trauma è reso con cura, profondità e delicatezza per restituire allo spettatore l’idea dell’essere umano completo, e non di mero innesco narrativo. La violenza non è mai mostrata esplicitamente – si intuisce attraverso fugaci lampi di flashback – ma il suo impatto arriva allo spettatore attraverso le conseguenze sulla vita delle donne che l’hanno subita, e attraverso le indagini precise, accurate, svolte con metodo e intuito.

In questo la straordinaria coppia di investigatrici si smarca completamente dalla lunga lista di detective formata prevalentemente da maschi ombrosi, problematici, egoriferiti, eroici, o semplicemente geni dell’investigazione. Ma le due neanche fanno parte del gruppo di detective donne campionate comunque sul modello maschile. Quella di Merritt Wever e Toni Collette è una coppia formata da due professioniste attente, competenti, tenaci e soprattutto empatiche.
Il primo interrogatorio condotto da Merritt Wever è un esempio di professionalità coniugato al totale rispetto per la vittima: la detective, nel raccogliere la testimonianza, non dimentica mai per un attimo che il suo lavoro non riguarda un caso di stupro, ma riguarda una persona che ha subito uno stupro, e questo cambio di prospettiva fa tutta la differenza del mondo, come possiamo subito constatare per contrasto osservando la gestione del primo caso di violenza che viene presentato. [Dal prossimo paragrafo SPOILER]

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Uno degli elementi che emergono dalla serie è l’inesistenza di un comportamento sbagliato da parte delle vittime che sono scelte indipendentemente dall’età, dall’aspetto fisico, dall’abbigliamento, dallo stile di vita. Eppure rimane radicata la convinzione che esista una vittima ideale meritevole di maggiore credito e ascolto rispetto ad altre, e questo è proprio quello che capita a Marie. La ragazza, dopo aver denunciato la violenza, viene interrogata più di una volta da agenti incuranti del trauma appena subito, formalmente cortesi ma di fatto indispettiti dal non riuscire a ottenere informazioni logiche e razionali che abbiano senso per loro. Nel momento in cui una delle mamme affidatarie di Marie rivela al detective in comando i propri dubbi sulla veridicità del racconto della ragazza perché il suo comportamento non collima con quello che dovrebbe tenere una vittima di stupro, ecco che il detective è pronto a trarre la conclusione che quella di Marie sia una storia inventata da una ragazza problematica in cerca di attenzione.

Quello che colpisce, e che la serie è brava a rendere in modo magistrale, è il repentino cambio di atteggiamento da parte del detective: non appena ha deciso che Marie sta mentendo, perché è questo quello che fanno le ragazze senza famiglia con un passato costellato di abbandoni e abusi, per la prima volta mostra compassione e un minimo di empatia. Solo nel momento in cui vede la possibilità di incasellare una persona in una categoria dai contorni netti e prestabiliti, il detective si lascia andare accordando a Marie quella pietà che non si era sentito di doverle rendere quando credere alla parola della ragazza significava letteralmente questo: credere alla sua parola nonostante non fosse supportata da altre evidenze. Naturalmente questo vale anche per la mamma affidataria che con tutte le buone intenzioni, e nonostante anche lei avesse subito una violenza da ragazza, aveva deciso che esiste un solo modo per reagire a una violenza, e quel modo non era il comportamento mostrato da Marie a cui, neanche troppo velatamente, si fa colpa di essere sessualmente attiva e di giocare con il suo corpo.

La storia raccontata da Marie – uno sconosciuto alto, forte, mascherato, armato, che la benda e lega e scatta fotografie – trova però riscontro a distanza di anni nei casi seguiti dalle due investigatrici interpretate da Toni Collette e Merritt Wever, e mentre Marie cade in una spirale burocratica, processuale e umana che la trascina sempre più verso il basso, dall’altra parte vediamo snodarsi un’indagine sulle tracce di un serial rapist che porta a risultati soprattutto perché le due donne hanno una forte etica del lavoro valorizzata dall’empatia, elementi che trasmettono a tutto il team di collaboratori.

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Unbelievable è significativa per la rappresentazione delle donne, non solo per quelle che hanno subito un trauma, ma anche per tutte le professioniste che lavorano in campi ritenuti da sempre maschili. I personaggi femminili sullo schermo sono spesso defraudati della possibilità di avere una vita privata sana e soddisfacente, salvo essere il love interest del protagonista o comprimario maschile. Le due detective della serie, in spregio a tutta una serie di cliché, hanno matrimoni solidi, partner collaborativi e, intuiamo, una vita al di fuori del lavoro.

Ma la serie nel suo essere un manuale di professionalità ed empatia non dimentica mai nemmeno per un istante di avere per sua natura un sacro dovere verso lo spettatore, e cioè quello di intrattenere, cosa che riesce a fare brillantemente. La scrittura governa saldamente entrambe le storyline, quella di Marie e quella delle indagini, che vengono posizionate su binari paralleli fino all’intersezione finale, e nel mentre lo spettatore viene sempre più catturato tra le maglie di uno poliziesco avvincente a sorpresa, visto i temi, capace di piazzare momenti di pura ironia che cementano il legame tra le protagoniste e tra il pubblico e i personaggi.

L’unico difetto di Unbelievable è quello di essere, per forza di cose, una miniserie autoconclusiva perché le detective interpretate da Toni Collette e Merritt Wever formano una coppia efficacissima che è davvero difficile salutare dopo soli otto episodi.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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